LECCE-Un percorso dentro la storia di suo padre, l’ “Artigliere Antonio Spedicato”, per attraversare quella che è stata la guerra in Russia anche per moltissimi soldati salentini. Un libro fatto di esperienze, racconti, lettere, documenti, ma anche di ricostruzione storica precisa. Lo ha presentato nella serata di martedì 17 aprile, nella sala del Monastero di San Giovanni Evangelista di Lecce, don Giuseppe Spedicato, parroco di Monteroni. Anche suo padre, soldato del 34esimo gruppo di artiglieria, durante la Seconda Guerra Mondiale scese in campo nella disastrosa Battaglia di Stalingrado, tra l’estate del 1942 e febbraio del 1943. Nella notte di Natale del 1942, venne catturato dai russi, poi la prigionia. Tanti coloro che a casa non hanno più fatto ritorno, croci anonime in una storia di ghiaccio – in tutti i sensi – ma anche di calore umano.
Un commento da parte dell'autore, il sacerdote Don Giuseppe Spedicato,da cui si evince che l'artigliere Antonio era nell'organico del XXXIV Gruppo da 149/40,alle dipendenze dirette del 9° Raggruppamento Artiglieria d'Armata.
MONTERONI DI LECCE – E’ la storia di un giovane soldato Antonio Spedicato raccontata dal figlio attraverso le testimonianze dirette dei racconti, delle lettere, dei documenti e della memoria storica della moglie Maria Spagnolo.Soldato del 34° Gruppo Artiglieria, partecipa alla Campagna di Russia, la Battaglia di Stalingrado, la tragedia degli oltre 229 mila soldati mandati al massacro durante la Seconda Guerra Mondiale.
“Era la notte di Natale, una notte che nella vita non avrei mai più dimenticato…..un soldato russo ci ordinò di arrenderci se non volevamo essere ammazzati all’istante…così alzai le braccia insieme agli altri e fummo catturati”.Il tragico racconto dell’artigliere Antonio Spedicato, inquadra immediatamente, senza giri di parole, l’ampiezza del dramma di quella terribile notte di Natale del 1942.In poche righe viene brutalmente dipinto il momento della cattura che avrebbe, poi, dato inizio alla tremenda esperienza della prigionia. Un’esperienza fatta di ricordi che, come afferma lo stesso soldato “mi hanno accompagnato e tormentato per tutta la vita”.
Per tale motivo, le pagine di questo libro non vogliono essere un trattato di storia, ma sono il frutto della viva testimonianza di un reduce della seconda guerra mondiale, raccolta dal figlio e concessa agli occhi delle nuove generazioni.
E’ una raccolta di momenti di vita, di esperienze vissute nell’ARMIR, l’armata italiana sul fronte russo, di quella che è stata definita “la campagna militare più sanguinosa della storia mondiale”, della quale però, quasi paradossalmente e inspiegabilmente, si rischia di perdere la memoria.
La lettura dei ricordi di uno stralcio di esistenza ci mettono di fronte all’esperienza dura e sofferta di un uomo della nostra terra e ci offre un’attenta riflessione nell’intento di recuperare, per quanto possibile, l’orrore della quotidianità della guerra e della prigionia nel gulag di Novosbirsk.
I dati storici, contenuti nell’opera, sono raccapriccianti: degli uomini che ebbero la sciagura di vivere nei campi di detenzione russi, soltanto il 10% fece ritorno a casa.
L’artigliere Antonio Spedicato racconta una storia agghiacciante, intrisa, tuttavia, di dignità, di calore, di onestà.
Dalle sue riflessioni emerge un mondo ricco di umanità, di nobili valori, quali il rispetto della dignità dell’uomo, della non violenza, della non sopraffazione.
Alle domande che gli vengono fatte sulla sua vita di guerra e di prigionia, risponde in maniera pacata, senza rancori, senza odii, con ricchezza di preziosi particolari, con un linguaggio che arriva subito al cuore e, proprio per questo, la narrazione diventa avvincente e suscita la voglia di arrivare all’ultima pagina.
I racconti di guerra non sono tutti uguali.
Ogni ricordo ha la caratteristica di essere un’esperienza di vita, di una vita che ha potuto raccontare ciò che realmente è accaduto.
Non quindi il racconto dei vincitori, non quello dei vinti, ma le parole di un uomo che ha vissuto l’odissea del conflitto, la disfatta della ritirata e le tribolazioni delle disumane condizioni di vita di una prigionia estremamente dura, in cui il gelo del “generale inverno”, malnutrizione, inimmaginabili condizioni igieniche e malattie, causarono la morte di quasi centomila internati italiani.
Ma, proprio grazie alla preziosa testimonianza di reduci, come il nostro artigliere, siamo in grado di ricostruire pezzi di verità storica sulla realtà annichilente di due degli strumenti di potere dei sistemi totalitari più abietti del secolo scorso: i lager nazifascisti e i gulag comunisti.
Il soldato Antonio Spedicato, con la sua rievocazione di patimenti, sofferenze, paure, oltraggi e umiliazioni nei campi di inumanità, suscita nel lettore “il dovere di conoscere per riflettere, di conoscere per riconoscere e non ripetere l’errore, di conoscere per non dimenticare”.
Con un linguaggio semplice ma, nello stesso tempo, chiaro e preciso, si compone il quadro di una storia agghiacciante da cui emerge una galleria di immagini, non solo dei tragici avvenimenti bellici, ma anche delle emozioni, delle storie personali e umane, dei tanti “anonimi” che in terra di Russia combatterono e morirono.
Di conseguenza, da queste pagine ricche di particolari autobiografici e, nello stesso tempo, storici, emerge vibrante un richiamo a tenere vivo il ricordo di un evento tanto significativo della nostra storia nazionale.
La lettura di queste memorie si è rivelata una profonda, coinvolgente ed emozionante esperienza dal punto di vista umano ed emotivo.
E’ stato come spalancare un sipario sulla scena del tempo ed essere calati brutalmente dentro il perimetro del terribile dramma vissuto dai nostri militari durante la guerra e la prigionia. Le immani sofferenze fisiche e mentali, l’attanagliante angoscia per la quotidiana convivenza con la morte, l’insopportabile stillicidio dell’incertezza del domani, portano inevitabilmente a delle attente riflessioni sui drammatici eventi che segnarono la vita di migliaia e migliaia di uomini dell’ARMIR e delle loro famiglie.
Mi sembra inevitabile concludere questi pochi pensieri ricordando Primo Levi, anche lui un internato in un campo di concentramento, le cui parole rappresentano una sorta di testamento spirituale: “La memoria è necessaria, dobbiamo ricordare perché le cose che si dimenticano possono ritornare”. Ma è altrettanto significativa la scelta dell’autore di chiudere l’opera con una riflessione di Giovanni Paolo II, in occasione del 50° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale in Europa, in cui si sente quasi l’eco della sua voce possente:
“ Mai più la guerra … mai più la guerra”.
Sono parole che, inevitabilmente, ci mettono davanti alla nostra coscienza e ci portano alla memoria il discorso di Paolo VI: “La pace è il dovere della storia presente. Chi sa riflettere nel passato, subito conclude che è assurdo un ritorno alle guerre, alle lotte, alle stragi alle rovine generate dalla psicologia delle armi… La pace bisogna volerla, la pace bisogna amarla, la pace bisogna produrla”.
La nostra è una cultura «della retorica», in cui si discute continuamente dei massimi sistemi mentre la gente muore, in cui si fanno dichiarazioni universali mentre la mentalità diffusa accetta, di fatto, tutte le contraddizioni di una economia disumana, di una politica litigiosa, tutte le logiche di un benessere egoistico e lo scandalo di una povertà che toglie dignità a masse enormi di uomini : questo libro l’ho scritto e l’ho voluto dedicare alla mia famiglia perché mio padre mi ha lasciato come eredità l’impegno di testimoniare quanto è avvenuto perché resti un monito.
Fatti così gravi di intolleranza e prepotenza non si devono ripetere, anzi dobbiamo adoperarci affinchè non si ripetino.
Sac. Giuseppe Spedicato